Bod/Y-Z/Interviste /Spazi di sorellanza per riappropriarsi di altri generi di forza. Intervista a Francesca Penzo

Blog

Spazi di sorellanza per riappropriarsi di altri generi di forza. Intervista a Francesca Penzo

Siamo riuscite a incontrare Francesca Penzo di persona, nel corso dei complessi giorni dell’alluvione. Sono nati sorrisi e riflessioni che scavano spazi dentro di noi.
Francesca, performer e coreografa fondatrice della compagnia Fattoria Vittadini e dell’associazione MICCE, ha curato nell’ambito di BOD/Y-Z il laboratorio “Un altro genere di forza” e l’omologa performance che avrà luogo il 15 e 16 giugno nella Piazza dei Servi di Maria.

Come nasce il progetto “Un altro genere di forza”?

«”Un altro genere di forza” nasce dal desiderio di lavorare con alcunə artistə che ho incontrato in questi anni e con cui mi interrogo sulle tematiche proprie del transfemminismo e sulla violenza di genere. Insieme, io e Ofelia Omoyele Balogun, Beatrice Guastalla, Luwam Aldrovandi Aweke e Ambrita Sunshine attiveremo un processo di composizione collettiva.
Ofelia è una coreografa italo-nigeriana laureata alla prima università europea di Danze africane e della Diaspora dei Caraibi a Londra; Ambrita Sunshine è un’artista queer italo-ivoriana che lavora moltissimo sul tema del femminile e della queerness; Beatrice e Luwam sono due giovani semi-professioniste che fanno parte del progetto Fattoria Indaco, una compagnia semi-professionalizzante formata da giovani under 35 in percorso migratorio. Questa compagnia nasce dalla volontà di permettere a persone in percorso migratorio (le quali hanno lasciato alle spalle nei paesi di origine un’attività legata alla danza e le arti performative) di continuare nel loro percorso da un punto di vista professionalizzante.
Abbiamo iniziato a costruire le basi teoriche di questo progetto organizzando una serie di incontri con delle esperte, che noi chiamiamo cultural advisors. Abbiamo incontrato Daniela Linguerri, psicoterapeuta che lavora in situazioni di frontiera legate alla violenza di genere in contesti migratori; Eleonora Bonvini, dottoranda dell’Università di Bologna con cui abbiamo parlato di educazione al genere; e infine abbiamo lavorato con Ambrita Sunshine, perfomer e terapeuta con cui abbiamo riflettuto sul radicamento della violenza nel corpo e sulla possibilità di reagire e guarire. In questo processo, vorremmo prendere la violenza di genere come punto di partenza e non di arrivo, e cercheremo di capire in che modo si possa parlare di riappropriazione, di rivalsa post-traumatica».

Perché il titolo “Un altro genere di forza”?

«Tra i vari temi che abbiamo fatto esplodere, ci siamo focalizzate in particolare sul concetto di forza. Con questo titolo abbiamo voluto giocare con il doppio significato della parola “genere” e parlare sia di genere come tipologia, sia come identità di genere. Questo titolo, in realtà, l’ho palesemente rubato da Alessandra Chiricosta!
Chiricosta è una filosofa interculturalista; nel suo consigliatissimo libro, Un altro genere di forza, propone una forma di riappropriazione alternativa, da parte del corpo femminile, dell’idea di forza che, per come la conosciamo, è tipicamente legata a una determinata costruzione culturale dell’immaginario maschile».

Che ruolo ha il laboratorio nella ricerca portata avanti in questo progetto?

«Il laboratorio, organizzato insieme all’associazione MICCE, si colloca sulla scia del discorso sulla violenza di genere ed è condotto alternativamente da me e dalle altre performer e coreografe che fanno parte di questo processo collettivo. Tutte noi pensiamo che, quando si riflette sulla violenza di genere, siano necessari grande cura, rispetto e ascolto.
Il laboratorio “Yes, I’m a Witch”, nato nel 2018 all’interno del progetto MigrArti in collaborazione con Mondo Donna Onlus, mi ha aiutata a rafforzare la mia consapevolezza sulla sensibilità necessaria a svolgere attività di questo tipo. La collaborazione con le operatrici di questa associazione, davvero valide e in ascolto, è stata fondamentale per creare una connessione con le donne in percorsi migratori. A partire da questa esperienza, io e le altre conduttrici di questo laboratorio abbiamo deciso di mantenere questo spazio “protetto”: abbiamo deciso di non lavorare con l’obiettivo di arrivare a una dimostrazione finale per non creare una disparità tra chi ha la possibilità e il desiderio di esporsi al di fuori dello spazio del laboratorio e chi non vuole o non può farlo».

In che modo la performance prevista dialogherà con il luogo in cui si svolgerà?

«La performance si svolgerà nella Piazza dei Servi di Maria. È un luogo che ho scelto personalmente; mi piaceva l’idea che il lavoro sul rituale che andremo a costruire, in cui potrebbero essere presenti aspetti legati all’afrofuturismo e alla cultura techno, si possa manifestare in risonanza, e in contrasto, con luoghi di culto tipicamente occidentale. Anche la figura femminile di Maria reca con sé un gran numero di significati: su questo tema di consiglio il libro Ave Mary di Michela Murgia.
Oltre a lavorare nello spazio della piazza, però, sento anche il forte bisogno di un raccoglimento tra me e le artiste: veniamo da luoghi geograficamente molto lontani, sarà importante ritrovarci in sala prima di tornare a disperdersi nello spazio della città».

Donne e spazio urbano: qual è la relazione tra il tuo lavoro e lo spazio della città?

«L’architettura è fatta dai corpi: l’architettura dovrebbe rispecchiare l’essere multiforme che è la nostra città. Su questo tema vi consiglio un libro di Leslie Kern, La città femminista. Kern parla di una “memoria muscolare urbana” legata al percorso delle donne nelle città; parla di come cambi la sua postura, il viso, lo sguardo e l’andatura quando attraversa lo spazio urbano.
La città non dovrebbe essere fondata sulla paura delle donne di viaggiare per strada, bensì dovrebbe essere fatta di spazi che vanno a favorire l’incontro, la comunità; dovrebbe avere, quindi, spazi circolari, interamente accessibili, spazi in cui le soggettività che costituiscono la città stessa possano manifestarsi e avere potere decisionale. Le nostre città sono ancora molto lontane da questo».

Questo progetto verrà documentato? In che modo?

«Il progetto è documentato da Viviana Fabris, una studentessa che ha affrontato insieme al prof. Alessandro Pontremoli dell’Università di Bologna un percorso legato alla drammaturgia della danza. È stata necessaria una profonda riflessione su quali fossero le modalità adeguate a documentare questo percorso. Fondamentale, ad esempio, è che a documentare sia una donna o comunque una persona socializzata come tale. Penso che Viviana, per la sua sensibilità e la sua attenzione, sia la persona adatta e giusta per seguire come alleata questo percorso.
Il modo in cui effettuare la resa di questo monitoraggio, poi, costituisce un fondamentale punto interrogativo: il questionario può avere delle limitatezze, così come l’uso della scrittura. Decidere delle domande a priori è già di per sé problematico; l’ideale sarebbe un processo di costruzione collettiva del monitoraggio, per cui i feedback si costruiscano durante il percorso, quando si è tutte insieme. I dubbi che naturalmente emergeranno durante le pratiche, probabilmente, sono più importanti delle risposte».

Quali sono le pratiche di movimento, provenienti dalla tua formazione ed esperienza, che riesci a portare attraverso i laboratori?

«Nei laboratori che propongo, mi piace interrogarmi sulla modalità di restituire ai partecipanti l’idea di abbandono del proprio corpo e, non potendolo fare attraverso il lavoro a terra di floorwork (in quanto spesso i laboratori sono svolti in spazi non convenzionali o, comunque, non pensati per la danza), mi focalizzo sul restituire la stessa idea di rilascio, ma stando in piedi. Cerco di far entrare il corpo in uno stato di rilassamento, eliminando le tensioni legate alla postura frontale ed eretta a cui siamo abituati, e poi attivo la connessione con lo spazio intorno e con parti del corpo di cui di solito non abbiamo la percezione. Mi piace lavorare sulla stanchezza, perché la fatica ha l’effetto di generare soddisfazioni e sfide, anche con se stesse. Uso lo shaking come mezzo in grado di generare vibrazioni che, da un lato rilassano, dall’altro attivano energia e adrenalina. In alcuni laboratori si riesce anche a lavorare con pratiche legate al contatto, al massaggio o, talvolta, anche con la voce: il canto ad occhi chiusi riesce a creare momenti di vicinanza e intimità».

In che relazione ti poni con il trauma attraverso le tue pratiche?

«In tutti i percorsi che attivo con donne non professioniste legate a contesti migratori o di violenza cerco innanzitutto di spostare l’attenzione sul corpo, capovolgendo la concezione comune secondo cui corpo e mente vanno insieme. Attraverso una serie di pratiche legate al movimento e al ritmo, aiuto a condurre la mente su un diverso piano di consapevolezza.
Lavoro poi sui vari centri in cui la violenza può essere radicata: il trauma passa attraverso varie parti del corpo, crea blocchi e difese, lascia tracce nella memoria corporea. La verbalizzazione non è sempre necessaria: si parte dal corpo, dalle sensazioni fisiche e da queste si entra in connessione con quello che si genera.
Per affrontare il trauma è fondamentale che si crei un ambiente sicuro, uno spazio di cura e ascolto extra-quotidiano: importantissimo è il gruppo e la sorellanza che si genera dalla pratica. Anche il silenzio è importante. A volte, dieci minuti in silenzio sono la cosa più difficile che si possa immaginare, soprattutto se richiesto a donne abituate a sostenere ogni giorno una grande mole di lavoro, retribuito e di cura. La sola energia scaturita dal silenzio ha la capacità di sciogliere tanti nodi.
In passato è successo che le donne, dopo del tempo, dopo che scelgono di tornare e di approfondire il legame con il gruppo, abbiano deciso di iniziare le narrazioni. Allora si è aperto un altro mondo legato alla parola e alla condivisione, attraverso i racconti. Per fare questo, però, c’è bisogno di molto tempo, di molta fiducia, di molta cura».

Come si può portare avanti un pensiero decoloniale attraverso la danza?

«Per riuscire ad attivare processi di decolonizzazione, per me è molto importante porsi come facilitatori nei contesti in cui ci si trova a proporre un’attività, tenendo sempre in considerazione la percezione che ogni individualità porta con sé.
In ciò che propongo, provo a facilitare la fuoriuscita di processi, di identità, di desideri e volontà, provo ad essere medium attraverso cui passano le informazioni e il sapere, andando a cambiare la dinamica tradizionale del confronto e attivando processi circolari in modo che tutti i partecipanti siano sullo stesso piano. Inoltre, bisogna sempre considerare che nelle proprie pratiche viene integrato non solo chi si è, ma anche da dove arriviamo e che cosa abbiamo intorno. Per me è importante avere un approccio transfemminista, perché mi permette di collocarmi al confine tra le varie forme di oppressione; so che esistono forme di oppressione che non conoscerò mai, ma posso mettermi in ascolto. Per fare questo, è fondamentale essere consapevoli dei limiti del proprio punto di vista, naturalmente soggettivo, e del proprio privilegio. Il mio desiderio non è di imporre conoscenze e tecniche, ma di offrire delle suggestioni, a partire da pratiche corporee, che possano aiutare a far emergere le emozioni e l’espressività già insite nella sensibilità delle persone che incontro.
Il lavoro di composizione coreografica che porteremo in scena prevede la stessa volontà di posizionamento: l’idea è che non ci sia un sapere o una voce che vale di più delle altre; non ci sarà un vertice di riferimento ultimo che prenderà le decisioni finali».

Con quali aspettative entri nel contesto del laboratorio?

«Sto facendo su di me un grande lavoro di sospensione del giudizio; vorrei mettere da parte il più possibile il perfezionismo che troppo spesso accompagna chi lavora nell’ambito della produzione artistica. Per avere un’ecologia propria del corpo e cercare di stare bene è importante, per me, ridimensionare le aspettative che si hanno rispetto a una pratica e amare quello che viene fuori, al di là dell’attesa.
Non voglio conquistare, ma capire come creare degli spazi di condivisione; cerco di essere il più accogliente possibile, sostenendo un ascolto circolare, consapevole di poter anche sbagliare. Mi aiuta ricordare che le persone presenti sono tutte parte fondativa della realtà che sta nascendo. C’è una sorta di “equità” tra le partecipanti, stiamo costruendo insieme uno spazio che ha le nostre caratteristiche e che, senza l’insieme di queste parti, non esisterebbe. Il mio lavoro senza le persone che vengono, che tornano, che mettono in discussione, non esisterebbe. Non si può sapere a priori dove questi incontri ci porteranno e come cambierà il gruppo; cerco di collocarmi in questa circolarità, di essere senza gerarchie, e poi vedremo!».

Come viene declinato il tuo essere attivista nella danza?

«La mia formazione è legata alla danza, ma il mio attivismo nasce nel corpo come elemento fisico e non è declinato esclusivamente nella disciplina. L’attivismo si connette innanzitutto con una presa di posizione legata alla mia identità: non rinnego la mia postura di corpo femminile, bianco, cis, etero.
Il mio legame con la danza non è mai stato fine a sé stesso, non è mai stata una danza per la danza; è impensabile, per me, staccare il discorso politico dalla mia ricerca artistica. Innesto il mio attivismo su pratiche fisiche e, partendo dal corpo, succede di poter avere la capacità di modificare il tempo – che trovo abbia qualcosa di magico – senza aver bisogno di parole: la danza lascia un margine di espressione e desiderio che coglie anche il non verbalizzabile».

Giada Quaranta, Arianna Terreno
Questa intervista è frutto del laboratorio di educazione allo sguardo applicato alla danza, a cura di Altre Velocità

Avatar

Autore: Altre Velocità